Sfida per la coesistenza tra Stati Uniti e Cina

Stati Uniti e Cina hanno una sola via d’uscita: la coesistenza pacifica. Una sfida difficile per Washington e Pechino.

La visita in Cina del segretario di Stato Usa Anthony Blinken arriva cinque mesi dopo che le due superpotenze economiche hanno sfiorato la rottura delle relazioni diplomatiche. Il viaggio di Blinken era stato sospeso a seguito dell’abbattimento nei cieli americani di un pallone spia cinese. Pechino aveva spiegato che si trattava di uno strumento per il monitoraggio meteorologico del tempo. Washington per tutta risposta ha dato ordine ai suoi caccia di distruggerlo.

La visita di Blinken ha previsto incontri con i più alti funzionari dello Stato cinese. Ha incontrato il presidente Xi Jinping nella Grande Sala del Popolo, il palazzo in piazza Tienanmen di solito riservato ai ricevimenti per i capi di Stato. I due leader hanno concordato sulla necessità di lavorare su un terreno condiviso. Xi ha incontrato lo scorso 16 giugno il fondatore di Microsoft Bill Gates. Le due superpotenze hanno una lunga lista di temi su cui confrontarsi, questioni che creano disaccordi ma anche potenziale cooperazione.

Ciò che è importante della visita di Blinken è la volontà di Usa e Cina di mettersi alla prova nel nuovo mondo multipolare. Gli Stati Uniti devono accettare il fatto di non avere più la leadership unica come nel dopo Guerra Fredda. Il nuovo equilibrio mondiale va oltre il bipolarismo o il monopolarismo. Siamo al tempo del multipolarismo e la sfida è di bilanciare le diverse culture che questo nuovo sistema internazionale esprime.

La Cina è un player fondamentale del quale occorre tenere sempre conto. Così come l’India. Seguono a ruota anche il Brasile e il Sudafrica. Questi Paesi, riuniti nei cosiddetti Brics insieme alla Russia, sono l’ossatura di un nuovo modello alternativo a quello occidentale. Un modello che propone un ordine economico internazionale diverso. Un modello che ha schemi istituzionali diversi. Un modello che guarda a forme di governance autocratiche, lontane dai nostri sistemi e valori democratici. Un modello che attrae Stati come l’Egitto e l’Uganda, oltre a a qualche decina di altri Paesi del sud del mondo.

L’esportazione della democrazia, fatta con le armi come nell’intervento in Iraq del 2003, ha dunque fallito. L’esistenza di questo nuovo blocco in via di formazione ne è la prova. La democrazia si esporta con l’esempio dei propri valori e non con il ricorso ai caccia bombardieri e all’invasione. Forse è proprio qui che la democrazia ha perso la sua sfida storica: con la supponenza e la pretesa di avere una propria superiorità morale rispetto ad altre culture diverse.

Le grandi speranze, per citare Charles Dickens, sono così quelle che dall’incontro di Blinken a Pechino nasca una coesistenza pacifica in versione 21° secolo. Certo non siamo ai tempi della Guerra Fredda, non c’è Krusciov e Kennedy, neppure Nixon e Breznev. E il mondo è multipolare, quindi più difficile da gestire. Azzardando un paragone storico, pur in considerazione delle ovvie differenze temporali, lo scenario internazionale attuale assomiglia molto a quello dell’Europa bismarkiana.

John King Fairbank, professore di Harvard negli anni ’60, è stato un precursore degli studi sulla Cina contemporanea. Fairbank riteneva che la politica estera cinese si fondava su tre principi chiave. Il primo è la rivendicazione della supremazia cinese nella regione. Il secondo è il riconoscimento e il rispetto della superiorità della Cina da parte dei paesi vicini. Il terzo è di usare la propria superiorità per organizzare una coesistenza armoniosa con i propri vicini. Fairbank lo scrive nel suo articolo “China’s Foreign Policy in Historical Perspective” su Foreign Affairs n. 3 del 1969 e citato dallo storico Graham Allison nel suo libro “Destinati alla Guerra” (Fazi Editore, Roma 2017, pg 185).

Questa analisi della politica estera cinese è ancora attuale e al Dipartimento di Stato devono tenerne conto. Fanno da sfondo anche le parole di un altro grande studioso americano. Si tratta di Thomas R. Adam, professore di Scienza Politica alla New York University: “Non possiamo dare per scontato che l’Asia debba continuare per sempre a essere incapace di intervenire nei nostri (americani n.d.r.) affari”. E’ ancora uno studio del 1967 (Western Interests in the Pacific Realm, Random House, New York 1967) che Noam Chomsky cita nel suo libro “I Nuovi Mandarini”, Einaudi 1969.  Parole di grande attualità, nonostante siano state scritte da più di cinquant’anni.

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