Come capire la crisi tra Israele e Palestina

Come capire la crisi tra Israele e Palestina

Alle origini della crisi arabo-israeliana. Storia del conflitto tra Israele e Palestina. Il longread di Notiziario Estero.

Lo Stato di Israele nasce formalmente il 14 maggio 1948. David Ben Gurion proclama in quella giornata la nascita dello Stato di Israele mentre i membri del Consiglio del Popolo firmano la Dichiarazione di Indipendenza.

La nascita dello Stato israeliano, che lo storico Jacob Talmon ha definito “la più straordinaria realizzazione del popolo ebraico”, ha le sue radici molto più indietro nel tempo.


Le origini della fondazione di Israele

Il percorso di formazione dell’entità statale israeliana intraprende il suo cammino con il libro di Teodor Herzl, Lo Stato Ebraico, edito nel 1895. Nella sua opera Herzl, uno dei fondatori del movimento sionista, predice la creazione di uno Stato ebraico.

Nel 1916 Francia e Gran Bretagna firmano l’accordo Sykes-Picot, dai nomi dei ministri degli esteri inglese e francese. Il trattato Sykes-Picot spartisce in zone d’influenza francesi e inglesi le regioni mediorientali dell’Impero Ottomano e ridisegna la mappa geografica del Medio Oriente, tracciando confini e creando formazioni statali.

Il percorso di costituzione dello Stato ebraico continua il 2 novembre 1917 con la Dichiarazione Balfour. L’allora Ministro degli Esteri britannico dichiara che la Gran Bretagna vede con favore la fondazione in Palestina di un focolare nazionale per il popolo ebreo e promette di “facilitarne la realizzazione”.

La Dichiarazione Balfour viene inserita nel “mandato” attribuito alla Gran Bretagna sulla Palestina nel corso della Conferenza di San Remo del 1920. Quest’ultima definisce infatti i mandati, cioè gli obblighi che le ex-potenze coloniali assumono verso gli abitanti delle ex-colonie e verso la Società delle Nazioni, istituzione internazionale creata nel 1919. Il mandato inglese conferma quanto stabilito nell’accordo Sykes-Picot del 1916.

Nel 1939 la politica di Londra del Libro Bianco fissa a 75000 il numero massimo di ebrei che potevano immigrare in Palestina per i cinque anni successivi. Alla vigilia della seconda guerra mondiale, dunque, la Gran Bretagna limita l’accesso degli ebrei europei che sarebbero stati in fuga da lì a poco dalla Germania nazista. Dopo la guerra, sono migliaia quelli che raggiungono la Palestina.


La nascita di Israele

Le Nazioni Unite, nate da poco nel dopoguerra, inviano una Commissione speciale in Palestina con l’intento di studiare la possibilità di creare uno Stato ebraico. Questa proposta viene sottoposta all’Assemblea generale dell’Onu, che la approva con la celebre Risoluzione 181 1947 dell’Assemblea Generale Onu. Sono 33 i voti a favore, tra i quali quelli di Stati Uniti e Unione Sovietica; 13 i voti contrari (tutti gli Stati Arabi); 10 gli astenuti, tra i quali la Gran Bretagna. Il voto è una delle rare occasioni in cui Stati Uniti e Unione Sovietica condividono una posizione comune.

Dopo l’approvazione della risoluzione, la tensione si inasprisce tra i 650.000 ebrei e 1,3 milioni di arabi che vivono in Palestina. Qui gli inglesi non hanno rispettato del tutto le condizioni del mandato riguardanti la formazione di uno Stato ebraico, come auspicato da Lord Balfour. Nel 1922, il governo di Sua Maestà aveva sottratto una parte del territorio palestinese favorendo la nascita del Regno di Transgiordania (poi Giordania) nel territori a est del fiume Giordano.

Al contrario, la risoluzione dell’Assemblea generale dell’Onu prevede la creazione di due Stati, uno ebraico e uno arabo. In mezzo deve esserci un corpo separato: la città di Gerusalemme con un regime internazionale. I due Stati devono dare vita a un’unione economica.

Gli ebrei accettano il progetto delle Nazioni Unite. I cinque paesi arabi in seno all’Onu lo respingono. Sono Arabia Saudita, Iraq, Egitto, Siria e Libano.

Questa situazione dà vita a una tensione crescente tra ebrei e arabi. Il passo alla violenza è breve. Il 31 dicembre 1947 alle raffinerie di Haifa, dove ebrei e arabi hanno sempre lavorato insieme, scoppia una rivolta nella quale vengono uccisi 39 ebrei dai colleghi arabi. A Via Ben Yehuda, nel febbraio 1948, un carico di esplosivo depositato su un autocarro salta in aria uccidendo 50 ebrei. L’11 marzo esplode una bomba collocata su un’auto del consolato americano nel cortile della Jewish Agency: sono 13 i morti e 40 i feriti. E’ l’inizio di una lunga storia di violenze reciproche.

Nel frattempo gli ebrei riescono a mettere insieme un esercito. Fu grazie allo sforzo di Golda Meir, futuro premier e ministro degli esteri israeliano, che le organizzazioni paramilitari ebraiche riescono a dotarsi di armi pesanti, come i carri armati, artiglieria e aviazione. I fondi vengono raccolti negli Stati Uniti, in tutto circa 50 milioni di dollari. Le armi vengono acquistate dalla Cecoslovacchia.


La prima guerra arabo-israeliana

Il momento cruciale è il 15 maggio 1948, il giorno dopo la proclamazione dello Stato di Israele. La Gran Bretagna aveva annunciato mesi prima di lasciare la Palestina in questa giornata e rimettere ogni decisione all’Onu. Sempre nella stessa giornata, gli eserciti regolari arabi invadono simultaneamente il territorio di Israele. E’ l’inizio della prima guerra arabo-israeliana, che dura fino a maggio del 1949 e che gli israeliani considerano la guerra d’indipendenza.

L’Egitto attacca da sud in direzione Tel Aviv. Siria, Libano e Iraq attaccano da nord dirigendosi verso Haifa. La Transgiordania avvia le ostilità nella zona centrale, occupando la Cisgiordania e parte di Gerusalemme. Un accordo segreto aveva stabilito che i militari giordani avrebbero occupato le zone arabe, mentre si lasciava a Israele l’occupazione delle zone destinatele dalla Risoluzione Onu.

Così a Gerusalemme le milizie giordane prendono il controllo del quartiere ebraico della Città Vecchia. Centinaia di persone, bambini, donne e anziani, vengono portati in Giordania come prigionieri. Intanto, Ben Gurion ha lanciato la battaglia di Latrun, una località strategica a metà strada tra Tel Aviv e Gerusalemme, che consente di controllare l’arteria viaria. Qui concentra una buona parte delle forze disponibili, soprattutto giovani. Ma Latrun si rivela una caporetto israeliana. Per evitare l’isolamento di Gerusalemme, e portare i rifornimenti, gli israeliani costruiscono in segreto un’altra strada, chiamata “strada di Burma”. In questo modo si impedisce agli ebrei di Gerusalemme di morire di fame e sete.

Le conquiste territoriali israeliane non tardano a arrivare grazie a un esercito più organizzato rispetto a quegli arabi. Gli israeliani si spingono a occupare la Galilea, la Giudea e il Neghev, andando ben oltre i confini previsti dal piano Onu. Il presidente Truman, che ha abbozzato un nuovo piano di spartizione della Palestina più svantaggioso per Israele, decide di abbandonare il progetto e tornare a quello delle Nazioni Unite. A settembre del 1948, il conte Folke Bernadotte, mediatore Onu per la pace, viene ucciso da un gruppo estremista israeliano denominato Banda Stern.

La situazione si stabilizza a Rodi durante gli incontri tra arabi e israeliani che durano da gennaio a luglio 1949. Gli accordi armistiziali avvengono tra Israele, da un lato, e Egitto, Siria, Libano e Giordania, dall’altro. Non si trovano intese sui confini dello Stato israeliano, su Gerusalemme, sul ritorno dei profughi, cioè le migliaia di persone sfollate o fuggite durante la guerra rifugiatesi in campi di accoglienza. E’ in questo contesto che le Nazioni Unite creano l’Unrwa, agenzia specializzata sui rifugiati, che si occupa direttamente della questione profughi.

A Rodi svanisce la prospettiva di uno Stato palestinese. La Cisgiordania viene infatti annessa alla Giordania, mentre la Striscia di Gaza è annessa all’Egitto. I Paesi arabi non riconoscono i confini e neppure lo Stato di Israele.

Intanto, nel neonato stato israeliano arrivano a migliaia gli ebrei da ogni angolo del mondo. La legge del 5 luglio 1950 sul diritto al ritorno aveva stabilito che ogni ebreo ha il diritto di immigrare in Israele.


La seconda guerra arabo-israeliana

La sconfitta egiziana del 1948 ha favorito l’ascesa al potere del generale Gamel Abdel Nasser. Il contesto internazionale è in mutamento. In Unione Sovietica la morte di Stalin apre la strada a Nikita Kruscev. Il sistema globale si stabilizza sul bipolarismo Usa Urss, mentre le ex-potenze coloniali si riducono al rango di medie potenze.

In politica estera, Nasser si posiziona sul neutralismo e rinnova la lotta a Israele. Il presidente egiziano non ha alcuna intenzione di riconoscere lo stato ebraico. Nel 1956 i rapporti tra Egitto e occidente si deteriorano. La causa è il rifiuto dei paesi occidentali a vendere armi all’Egitto. La Francia, in particolare, teme che gli egiziani vogliano vendere armi ai partigiani algerini. Così Nasser si rivolge alla Cecoslovacchia e all’Urss e ottiene notevoli armamenti. Ciò causa tensione con i paesi occidentali che osservano lo spostamento verso l’Urss del governo del Cairo.

A alimentare la tensione c’è poi la questione della diga di Assuan. Il progetto di Nasser e di irrigare vaste zone deserte e evitare le inondazioni del Nilo, costruendo una grande diga. Servono però finanziamenti, che l’Egitto non possiede. Il Cairo si rivolge alla Banca Mondiale, ma gli Stati Uniti mettono il veto. Il finanziamento fallisce. L’Egitto risponde nazionalizzando, con un decreto del 26 luglio 1956, la Compagnia Internazionale del Canale di Suez. Lo scopo è assicurare all’Egitto tutti gli introiti derivanti dal passaggio delle navi. E’ il modo egiziano di reperire i capitali.

La nazionalizzazione del canale di Suez fa scattare l’opposizione di Francia e Gran Bretagna, entrambe con forti interessi nel canale. Soprattutto il governo francese del socialista Guy Mollet considera un’opportunità la caduta di Nasser che spezzerebbe i legami tra egiziani e movimento di liberazione algerino. Così Parigi e Londra sono sempre più orientate verso l’intervento militare. Non è d’accordo John Foster Dulles, segretario di Stato del presidente Dwight Eisenhower. Ritiene che un’azione di forza spingerebbe il mondo arabo verso l’orbita sovietica.

Francia e Gran Bretagna vanno avanti comunque. Portano la loro base militare a Cipro e studiano l’attacco all’Egitto, sollecitando Israele a attaccare. In quel momento governa Ben Gurion. Dopo un accordo segreto con i governi francesi e inglesi, le truppe israeliane guidate dal generale Moshe Dayan attaccano l’Egitto tra il 29 e il 30 novembre e arrivano fino a Gaza e alla penisola del Sinai. Intanto, l’aviazione britannica e francese attacca dal cielo i porti egiziani e il 5 novembre sbarcano a Porto Said.

Nasser tuttavia resiste. Fa costruire il Canale di Suez affondando le navi e blocca in questo modo i rifornimenti di petrolio per l’Europa. Inoltre, si verifica un fatto impensabile. usa e Urss condannano l’attacco all’Egitto. L’Urss invia un ultimatum e minaccia l’uso di armi atomiche. Per la prima volta le due superpotenze condividono, pur con motivazioni diverse, la stessa posizione.

E’ lo smacco per Londra e Parigi, che devono ridimensionare il peso della loro potenza. Ma anche per Israele. Perché l’Onu condanna la sua azione di guerra dopo una rara decisione all’unanimità del Consiglio di Sicurezza. Le forze israeliane devono quindi ritirarsi da Gaza e dal Sinai nel 1957. Aumenta il prestigio dell’Urss in Medio Oriente. E aumenta l’influenza politica di Nasser.

Le conseguenze di questa avventura franco-britannica e israeliana sono notevoli. Londra e Parigi perdono del tutto ogni influenza in Medio Oriente. Stati Uniti e Unione Sovietica aumentano invece il loro prestigio. Infine, Nasser rafforza il proprio potere dentro l’Egitto. Israele conquista il ruolo di potenza della quale occorre tenere conto nella regione.


La terza guerra arabo-israeliana

La terza guerra arabo-israeliana è conosciuta come la guerra dei sei giorni. Il conflitto, dal 5 al 10 giugno 1967, nasce dal contesto che si crea negli anni ’60. Gli arabi sono sempre intenzionati allora a non riconoscere Israele come Stato e a cancellarlo dalla carta geografica mediorientale. I governi arabi e i loro cittadini percepiscono che è impossibile cacciare gli israeliani. Inoltre, Israele non ha alcuna intenzione di accettare la sola soluzione che potrebbe convincere gli arabi a trovare un compromesso: la trasformazione in uno Stato laico fondato sulla parità con gli arabi palestinesi. Questa soluzione getterebbe le premesse per un ritorno degli arabi nelle terre che hanno abbandonato dopo le guerre del 1948 e 1956. Ma lo Stato israeliano si fonda su basi religiose e razziali. In questo contesto per i palestinesi è possibile avere solo un ruolo di minoranza e vivere nella segregazione. Questa percezione lascia agli arabi, almeno fino alla fine degli anni ’60, il desiderio che Israele vada distrutto e cancellato dalla carta geografica.

Intanto, l’Unione Sovietica si è guadagnata la credibilità nel mondo arabo. Mosca è vista come protettrice dei paesi arabi, oltre che arsenale militare, che sostiene la lotta contro Israele, una creatura dell’imperialismo occidentale secondo le definizioni dell’epoca. Nello Stato israeliano invece si stanno consolidando due forze politiche che segneranno la vita politica del paese per cinquant’anni. Il primo è il Mapai, il partito dei lavoratori israeliani di ispirazione socialista. Ha tra i suoi maggiori esponenti David Ben Gurion, uno dei padri della patria e dell’indipendenza israeliana. Il Mapai a inizio anni ’60 affronta una scissione dalla quale nasce il Rafi, il partito laburista israeliano, simbolo della sinistra del Paese. A questo si contrappone l’Herut, il partito dell’estrema destra. A sinistra si formano anche due partiti comunisti. Uno di questi ha tra i suoi obiettivi quello della parità con i palestinesi e vanta tra i suoi esponenti anche gli arabi. I palestinesi si sono organizzati nel movimento per la liberazione della Palestina (Al-Fatah) che ha un braccio armato che collabora con le forze armate degli Stati arabi. Il leader della resistenza palestinese è Yasser Arafat.

La guerra dei sei giorni è il frutto di una tensione mai sopita dal conflitto del 1956. Per anni sono continuati gli incidenti e le rappresaglie di frontiera. I rai militari israeliani sono frequenti. Il re di Giordania, Hussein, è un moderato, antiprogressista e rivale di Nasser. Hussein è di fatto un conservatore, non gli piacciono gli atteggiamenti del nasserismo. Tuttavia, decide di aderire al patto militare tra Egitto e Siria. Probabilmente spinto dall’opinione pubblica che lo accusa di subire senza reazioni le incursioni israeliane e il trattamento degli ebrei verso gli arabi, re Hussein vede il rischio di un suo indebolimento interno e sul piano internazionale.

Forte della partecipazione della Giordania, Nasser chiede all’Onu di ritirare i caschi blu che presidiano i diversi confini mediorientali tra Israele e gli Stati arabi. Perché, spiega il presidente egiziano, l’Onu non è in grado di garantire la sicurezza. Le Nazioni Unite, su consiglio del presidente Usa Lyndon Johnson, accettano. La conseguenza è che subito dopo il ritiro dell’Onu Nasser ordina il blocco delle navi nel Golfo di Aqaba dirette in Israele. Nello Stato ebraico è a quell’epoca ministro della difesa Moshe Dayan, un duro della politica con esperienza militare. La reazione è durissima. Israele attacca a sorpresa gli aeroporti di Egitto, Siria, Iraq e Giordania. Occupa Sharm el-Sheikh e Gaza, oltre a tutta la penisola del Sinai. Conquista Gerusalemme cacciando i giordani anche dalla Cisgiordania. Avanza in tutta l’Alta Galilea e arriva fino a controllare le alture del Golan, punto strategico sul confine siriano. Per gli arabi è uno smacco. Nasser si dimette, anche se la folla lo acclama e chiede di respingere le dimissioni dopo grandi manifestazioni di piazza.

Le conseguenze della guerra dei sei giorni sono notevoli sul piano internazionale. Le relazioni tra Stati Uniti e Unione Sovietica si inaspriscono. L’Urss avvia una forte pressione diplomatica all’Onu per chiedere il ripristino dei confini precedenti la guerra dei sei giorni. Le conquiste territoriali di Israele sono enormi e rovesciano gli equilibri mediorientali. Israele però rifiuta il ritiro e vuole trattare direttamente con i paesi arabi al fine di ottenere il riconoscimento come Stato. Anche la Francia del generale Charles De Gaulle fa sentire la sua voce. Parigi critica Israele e fa una chiara scelta di campo appoggiando i paesi arabi. Sostiene anche l’Urss nella sua azione diplomatica all’Onu. Si rafforza anche la resistenza palestinese, supportata dai paesi arabi, che mette in atto azioni di guerriglia contro obiettivi israeliani. Il governo di Gerusalemme risponde con rappresaglie violente, che trovano il culmine nel bombardamento del porto di Beirut nel dicembre 1968. A seguito di questo, l’Eliseo stabilisce un embargo nei confronti dei rifornimenti militari a Israele. Nasce in questo periodo l’Olp, l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina. Viene fondata da al-Fatah e altri movimenti della resistenza palestinese. La leadership è di Arafat.


La quarta guerra arabo-israeliana

Dalla guerra dei sei giorni a quella dello Yom Kippur nell’ottobre 1973. Nei paesi arabi ci sono alcuni cambiamenti dei vertici politici. in Egitto Nasser muore nel 1970 e lo sostituisce Anwar Sadat. In Siria sempre nel 1970 prende il potere Assad, padre dell’attuale presidente siriano. Re Hussein in Giordania fa un passo indietro e decide di astenersi da qualunque conflitto e relazioni con Israele. Nel 1970, a dimostrazione della sua posizione di distacco, caccia con la forza i palestinesi di Giordania in quello che è passato alla storia come il settembre nero.

in Egitto Sadat cerca di riallacciare i rapporti con gli Stati Uniti e prendere le distanza da Mosca. A questo fine espelle centinaia di consiglieri militari russi. Non raggiunge però il risultato sperato perché a Washington restano diffidenti. Così Sadat gioca di nuovo la carta della guerra e si fa aiutare dall’Urss, nonostante avesse preso le distanze. Il 6 ottobre del 1973 Egitto e Siria attaccano a sorpresa Israele mentre sono in corso i festeggiamenti dello Yom Kippur. L’esercito israeliano è preso di sorpresa ma dopo alcuni insuccessi iniziali reagisce e arriva fin quasi al Cairo. E’ l’ennesimo smacco per Israele. All’Onu il 22 ottobre si trova l’accordo per la sospensione delle operazioni militari e l’invio di un contingente Onu. La reazione araba è “petrolifera”. Per la prima volta viene imposto il blocco ai paesi occidentali. E’ l’inizio delle crisi petrolifere.


Trattato di pace tra Israele e Egitto

Le trattative di pace tra Egitto e Israele sono complesse. Tuttavia, Sadat è deciso a andare avanti a differenza della Siria che continua a mantenere un atteggiamento intransigente. Il presidente egiziano è convinto che la formazione dello Stato israeliano sia irreversibile. E che quindi occorra una svolta per evitare lo stato di guerra continuo. Così nel 1977 vola in Israele in uno storico viaggio a Gerusalemme dove incontra il premier israeliano Menachem Begin, a capo di una coalizione di centro-destra. Nel 1978, con gli auspici degli Stati Uniti di Jimmy Carter, Sadat e Begin si incontrano a Camp David dove firmano uno storico accordo che sarà seguito dal trattato di pace a Washington il 26 marzo 1979 con il riconoscimento reciproco tra i due Paesi. Il Trattato prevede la smilitarizzazione del Sinai. Sadat pagherà con la vita questa scelta politica. Nell’ottobre del 1981 viene ucciso da un fanatico integralista durante una cerimonia in Egitto.


La pax americana

L’accordo tra egiziani e israeliani è stato possibile grazie all’intervento e mediazione degli Stati Uniti. Washington fornisce supporto economico e politico a Israele, evitando l’isolamento diplomatico, e trasferisce armamenti all’esercito. Ma gli Stati Uniti supportano economicamente anche l’Egitto. Trasferiscono al Cairo 2 miliardi di dollari all’anno. Sono 3 miliardi quelli che mandano in Israele. E’ l’inizio di quella che viene definita la pax americana. Ci si riferisce all’influenza, politica e finanziaria, che gli americani hanno su ampie zone mediorientali. L’Unione Sovietica invece è in questa fase in una situazione di debolezza. Nel 1967, dopo la guerra dei sei giorni, interrompe le relazioni diplomatiche con Israele. Per riprenderle si dovrà aspettare il 1991, l’anno dei grandi mutamenti dello Stato sovietico.


Sabra e Shatila

Il Trattato con l’Egitto sopravvive anche allo scossone di Sabra e Shatila a Beirut. Il 5 giugno 1982 il governo israeliano lancia l’operazione militare “Pace per la Galilea”. E’ di fatto una guerra con il Libano voluta dal premier Begin su spinta di Ariel Sharon, allora ministro della difesa. Il Libano era diventato rifugio di varie fazioni di terroristi palestinesi. Obiettivo delle forze armate israeliane è di smantellare le organizzazioni avanzando fino a 40 km a nord del confine israeliano. Ma Sharon non si ferma e va ben oltre i 40 km. Confida nella collaborazione del presidente libanese Bashir Gemayel, un maronita, che però viene assassinato il 15 settembre del 1982. Probabilmente c’è la mano dei siriani dietro la sua uccisione. La vendetta dei maroniti è pesante. Il 16 settembre 1982 entrano nei campi palestinesi di Sabra e Shatila, nei pressi di Beirut, dove uccidono circa 600 palestinesi, tra i quali anche donne e bambini. Sharon appoggia l’operazione consentendo alla falange maronita di entrare nei campi palestinesi presidiati dall’esercito israeliano dopo l’avanzata in Libano.

Il massacro di Sabra e Shatila segna la linea rossa della tolleranza. Il 25 settembre 1982 Tel Aviv assiste a una delle più grandi manifestazioni di popolo della storia di Israele. Nella piazza dei Re d’Israele ci sono oltre 400.000 manifestanti. A organizzare la protesta è il movimento Shalom Akshav (La pace ora), che contesta l’intervento israeliano in Libano, denunciano il massacro di Sabra e Shatila e chiedono le dimissioni di Ariel Sharon, accusato di essere il principale responsabile del massacro. A seguito di questi eventi, che mostrano la mancanza di consenso popolare alla guerra di Sharon, Israele e Libano firmano un trattato di pace il 17 maggio 1983.


Peres e Shamir

Nel 1984 arriva al governo Shimon Peres, a capo di un governo di unità nazionale. Peres dopo due anni deve cedere il posto alla destra del Likud guidata da Yitzhak Shamir. Nel 1987, Peres è ministro degli esteri e ottiene la firma di un accordo a Londra con il re Hussein di Giordania. Prevede, nel rispetto di un invito del segretario generale dell’Onu, di realizzare una pace a livello regionale, organizzare una conferenza internazionale per la pace, l’avvio di un negoziato con comitati bilaterali. L’accordo non è mai andato in porto a causa dell’opposizione del premier Shamir.


Prima Intifada

A dicembre del 1987 scoppia la prima Intifada. E’ la prima grande rivolta dei palestinesi nei territori occupati: striscia di Gaza, Giudea e Samaria (cosiddetta Cisgiordania o West Bank). E’ ministro della difesa Yitzhak Rabin, che non comprende subito la portata della rivolta e la tratta come una semplice sommossa, inviando militari in assetto di guerra. Si crea una situazione di guerriglia continua con ragazzi palestinesi che lanciano pietre e combattono contro i militari. Le immagini mostrano i soldati che in tenuta di guerra lottano contro i ragazzi palestinesi. L’impatto sull’opinione pubblica è notevole. Una società democratica come quella israeliana non può tollerare la guerriglia e ciò che entra nelle case attraverso la televisione.


Accordi di Oslo e Washington. La soluzione due Stati

Nell’ottobre del 1991 inizia la Conferenza di Madrid. Avviene a seguito dell’invasione irachena del Kuwait. E’ il primo esempio di multilateralismo diplomatico per trovare soluzioni alle instabilità politiche dell’area mediterranea. L’Olp di Arafat però non viene invitato, anche se il suo peso si sente negli incontri della delegazione palestinese.

Nel 1992 i laburisti tornano al governo in Israele. Rabin è primo ministro, mentre Shimon Peres è ministro degli esteri. E’ la squadra perfetta per avviare un percorso sull’autonomia palestinese. Lo stesso Rabin promette in campagna elettorale di giungere a un accordo sull’autonomia palestinese entro 9 mesi. La promessa viene mantenuta. Il lavoro diplomatico lo conduce Peres. Il canale di comunicazione è a Oslo dove avvengono incontri tra Abu Alla per i palestinesi e due professori israeliani. Da qui si avvia un negoziato segreto tra Peres e l’Olp che porta alla dichiarazione dei principii di Oslo del 20 agosto 1993. La dichiarazione è completata e firmata a Washington il 13 settembre quando Rabin e Arafat si stringono la mano alla Casa Bianca davanti al presidente Bill Clinton. Il 24 settembre 1995 viene firmato sempre a Washington l’accordo di pace.

Fonte Corriere della Sera

Il percorso di pace di Rabin

Il processo di pace non é apprezzato da tutti in Israele. Sono soprattutto gli estremisti ebrei a voler silurare e far fallire il processo in corso. Si oppongono principalmente a qualunque tentativo di trasferire terre conquistate da Israele ai palestinesi. E’ opportuno ricordare la strage di Hebron del 25 febbraio 1994. Baruch Goldstein entra nella Tomba dei Patriarchi a Hebron, sacra a ebrei e musulmani, e uccide 29 palestinesi in preghiera. Viene a sua volta ucciso. Vale la pena citare Arrigo Levi che riguardo agli estremisti scrive nel 1996 che il vero nemico degli estremisti ebrei è lo Stato di Israele laico e democratico. Rabin, ci ricorda Levi, dice di loro: “Siete una vergogna per il sionismo, non avete diritto di essere parte del nostro popolo, e neppure di una società democratica” (Arrigo Levi: Yitzhak Rabin, 1210 giorni per la pace. Mondadori Milano 1996).

La reazione palestinese ai fatti di Hebron non si fa attendere. Il 6 aprile 1994 un terrorista suicida di Hamas uccide 8 israeliani ad Afula. Il 13 aprile 1994 un altro terrorista kamikaze di Hamas si fa saltare per aria con una bomba su un autobus a Hedera, uccidendo 6 passeggeri.

Nonostante queste difficoltà Rabin va avanti. Firma con Arafat al Cairo il 4 maggio 1994, e sotto gli occhi del presidente egiziano Mubarak, l’accordo per l’attuazione dell’autonomia palestinese a Gaza e Gerico. Intanto continuano gli attentati degli estremisti. Soprattutto sono gli esponenti di Hamas a mettere a segno i colpi più sanguinosi come l’attentato del 19 ottobre 1994 quando una bomba su autobus uccide 22 persone nei pressi di Tel Aviv. E’ in questo momento che Benjamin Netanyahu, allora a capo del Likud e all’opposizione, denuncia la politica di pace di Rabin. Celebre la reazione del premier: “Netanyahu danza sul sangue delle vittime” perché collabora con Hamas per sgretolare il processo di pace.

Rabin comunque va avanti. Il 26 ottobre 1994, alla presenza di Bill Clinton, Israele e Giordania firmano il trattato di pace nel deserto dell’Aravà. Rabin e re Hussein si stringono la mano. Alla Giordania si riconosce il suo ruolo storico nei luoghi santi musulmani di Gerusalemme. Poco dopo, il 29 ottobre, inizia la Conferenza di Casablanca, un vertice economico per promuovere la cooperazione tra israeliani e arabi in Medio Oriente. Il 24 settembre 1995 Rabin è di nuovo a Washington per firmare con Arafat l’accordo denominato Oslo II e richiamato più sopra. Prevede il ritiro dei militari israeliani dai centri urbani più popolati dai palestinesi entro il dicembre 1995 e permette le prime elezioni legislative palestinesi che si tengono a novembre.

L’avventura politica di Rabin si interrompe il 4 novembre 1995 a Tel Aviv. E’ assassinato durante una manifestazione da un esponente dell’estremismo ebraico. Lo shock nel paese e nel mondo è enorme. L’assassinio di Rabin è stata la sconfitta di tutti gli sforzi per la pace, la sconfitta dei pacifisti, la fine di un sogno che vedeva molto vicina la realizzazione di uno Stato di Palestina.


Netanyahu al governo e la seconda Intifada

Shimon Peres diventa primo ministro dopo la morte di Rabin. Il suo premierato non dura molto. Le elezioni anticipate del marzo 1996 portano al potere il Likud e diventa premier Netanyahu. E’ l’inizio di un lungo percorso politico che porta Bibi, questo il soprannome di Netanyahu, più volte al potere.

A settembre 2000 esplode la seconda Intifada palestinese. Inizia a Gerusalemme e si estende a tutta la Palestina.  L’episodio iniziale fu la reazione ad una visita, ritenuta dai palestinesi provocatoria, dell’allora capo del Likud Ariel Sharon al Monte del Tempio, luogo sacro per i musulmani situato nella Città Vecchia.

La provocazione di Ariel Sharon fu il casus belli. Le ragioni storiche erano piuttosto il lento accumulo di tensioni tra il 1993 e il 2000, dovuto allo stallo del processo di pace, che faceva intravedere un fallimento degli accordi di Oslo. La tensione avrebbe raggiunto il culmine nel luglio del 2000 con il fallimento del vertice di Camp David.


Il fallimento di Camp David nel 2000

Tra l’11 ed il 24 luglio 2000, sotto gli auspici del presidente Clinton, il primo ministro Barak ed il presidente Arafat si sono incontrati a Camp David nel tentativo di raggiungere un accordo su uno status permanente. I negoziati sono stati senza precedenti in finalità e dettagli ma non sono stati in grado di colmare le lacune e raggiungere un accordo.

Ehud Barak, in seguito alle pressioni del presidente Bill Clinton, offrì a Yāsser Arafāt uno Stato palestinese nella striscia di Gaza e in parte della Cisgiordania, il ritorno di un limitato numero di profughi e un indennizzo per gli altri, la demilitarizzazione dello Stato palestinese e lo smantellamento dei gruppi terroristici. Con una mossa estremamente criticata, Arafāt rifiutò l’offerta di Barak senza peraltro presentare delle controproposte.

Fonte Corriere della Sera

Basandosi sui progressi compiuti a Camp David, tuttavia, i due leader concordarono i seguenti principi guida per i negoziati:

Le due parti hanno concordato che l’obiettivo delle trattative è quello di porre fine a decenni di conflitto e di raggiungere una pace giusta e duratura.
Le due parti si impegnano a proseguire i loro sforzi per concludere un accordo permanente su tutte le questioni relative alla situazione nel più breve tempo possibile.
Entrambe le parti convengono che i negoziati sulla base delle risoluzioni del Consiglio di sicurezza dell’ONU 242 e 338 sono l’unico modo per raggiungere un accordo di questo tipo e che si impegnano a creare un ambiente per i negoziati di libero da pressioni, intimidazioni e minacce di violenza.
Le due parti hanno capito l’importanza di evitare azioni unilaterali che possano pregiudicare l’esito dei negoziati e che le loro differenze saranno risolte solo con i negoziati in buona fede.
Entrambe le parti convengono che gli Stati Uniti rimangono un partner fondamentale nella ricerca della pace e continueranno a consultarsi in stretta collaborazione con il presidente Clinton ed il segretario di Stato Madeleine Albright nel periodo a venire.


Il vertice di Taba

La squadra negoziale israeliana ha presentato una nuova mappa al Vertice di Taba a Taba, in Egitto, a gennaio 2001. Si decise di eliminare il “controllo temporaneo israeliano” in alcune aree e la parte palestinese l’ha accettato come base per futuri negoziati. Tuttavia, il Primo Ministro israeliano Ehud Barak non condusse ulteriori negoziati in quel momento e i colloqui si sono conclusi senza un accordo.


La road map per la pace

Una proposta di pace presentata dal Quartetto dell’Unione europea, dalla Russia, dalle Nazioni Unite e dagli Stati Uniti il 17 settembre 2002, era la tabella di marcia per la pace. Questo piano non ha tentato di risolvere problemi difficili, come il destino di Gerusalemme o degli insediamenti israeliani. Li mette da parte per la negoziazione nelle fasi successive del processo. La proposta non è mai andata oltre la prima fase, che prevede la sospensione della costruzione di insediamenti israeliani e la fine della violenza tra israeliani e palestinesi. Nessuno di questi due obiettivi iniziali è stato raggiunto.


Iniziativa di pace araba

L’Iniziativa di pace araba è stata proposta per la prima volta dal principe ereditario Abdullah dell’Arabia Saudita al vertice di Beirut. È una proposta per una soluzione al conflitto arabo-israeliano nel suo insieme, e in particolare al conflitto israelo-palestinese. L’iniziativa è stata inizialmente pubblicata il 28 marzo 2002 al vertice di Beirut e concordata nuovamente nel 2007 al vertice di Riyad. A differenza della tabella di marcia per la pace, viene spiegata come una “soluzione finale” di confini esplicitamente basati sui confini delle Nazioni Unite stabiliti prima del 1967. Offre di normalizzare completamente le relazioni con Israele, in cambio del ritiro delle sue forze da tutti i territori occupati, incluso il Golan, e di riconoscere uno stato palestinese indipendente con Gerusalemme Est come capitale della Cisgiordania e della Striscia di Gaza, nonché un “giusta soluzione” per i rifugiati palestinesi.

Numerosi funzionari israeliani hanno risposto all’iniziativa con supporto e critiche. Il governo israeliano ha espresso le sue riserve sulla “linea rossa”, su questioni come il problema dei rifugiati palestinesi, la sicurezza e la natura di Gerusalemme. Tuttavia, la Lega araba continua a mantenere l’iniziativa come possibile soluzione e si sono tenuti incontri tra la Lega araba e Israele.


Gli eventi del 21° secolo

2002: Ramallah, Gerico e Tulkarem sono rioccupate dall’esercito israeliano. 2002-2003, la Road Map del quartetto Usa-Ue-Russia-Onu presentata da George W. Bush non supera neanche il livello uno. Nel 2005 Israele si ritira dalla Striscia di Gaza, via i 21 insediamenti. 2006: nuova guerra con il Libano; alle elezioni palestinesi vince Hamas che l’anno dopo prende con le armi il controllo totale della Striscia, mentre l’esangue Fatah di Abu Mazen si tiene a galla in Cisgiordania. Da Gaza e su Gaza partiranno altri sette attacchi e contrattacchi.

A partire dal 2020 prende il via l’ultimo tentativo di normalizzare i rapporti tra Israele e mondo arabo con gli accordi di Abramo promossi dalla presidenza Trump: intese bilaterali concluse con Emirati, Bahrein, Marocco e Sudan, giunte alla fase negoziale con l’Arabia Saudita. La questione palestinese è scomparsa. Per l’Onu gli insediamenti restano illegali, perché ostacolando la continuità territoriale rendono impossibile la soluzione dei due Stati. Tra Cisgiordania e Gerusalemme Est oggi ce ne sono 279, compresi 147 avamposti non autorizzati dal governo israeliano, per un totale di circa 700 mila coloni insediati fra 3 milioni di palestinesi sotto occupazione militare.

7 ottobre 2023, assalto di Hamas. Terra promessa e tradita: dal fanatismo politico, dal mondo arabo che ha sempre usato la questione palestinese per giocare altre partite su altri tavoli, dal terrorismo.


Letture consigliate per approfondimenti e fonti di questo articolo:

  • Sergio Minerbi: Lo Stato di Israele, i primi cinquant’anni – in Quaderni di Nuova Storia Contemporanea, Israele Mezzo Secolo. Luni Editrice, Milano 1998.
  • Guido Valabrega: Il Medio Oriente dal primo dopoguerra a oggi- Sansoni Editore, Firenze 1977.
  • Massimo Salvadori: Storia Contemporanea, vol III- Loescher Editore, Torino 1991.
  • Arrigo Levi: Yitzhak Rabin, 1210 giorni per la pace. Mondadori Milano 1996.
  • Eli Barnavi: Storia di Israele – Bompiani Editore,
  • Bennis Morris: Israele e Palestina tra guerra e pace. Rizzoli, Milano 2004
  • James L. Gelvin: The Israel-Palestine conflict: A conflict, Cambridge University Press, 2021.
  • Charles Enderlin: Storia del fallimento della pace tra Israele e Palestina. Newton and Compton Editori, Roma 2003.

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