La variante iraniana e la guerra possibile contro Teheran

Gli Stati Uniti, l’Iran e la guerra possibile. In Medio Oriente sta cambiando l’assetto geopolitico. Però Usa e Israele mostrano i muscoli e i segnali di ostilità.

L’elezione del presidente Ebrahim Raisi in Iran riapre i giochi nel quadrante mediorientale. La prima conseguenza della sua elezione è stato il colloquio tra il segretario di Stato americano Anthony Blinken e il ministro degli esteri israeliano Yair Lapid.

I due capi della diplomazia si sono incontrati a Roma alla fine di giugno nel corso del vertice della coalizione anti-Daesh, il nome arabo dell’Isis. Al centro del loro confronto c’è stata la questione iraniana e il futuro del negoziato nucleare dopo l’elezione del neopresidente Raisi, un ultraconservatore.

Quasi nello stesso tempo in cui Blinken parlava con Lapid, gli americani bombardavano le postazioni delle milizie filo-iraniane in Siria. L’ordine è partito dal presidente Joe Biden che non poteva dare un messaggio più esplicito a Raisi: siamo determinati a attaccare se l’Iran cerca di entrare a gamba tesa in Siria e in Medio Oriente.

L’offensiva dell’aeronautica militare Usa ha mandato anche un messaggio di fiducia e credibilità al governo israeliano, il cui ministro degli esteri era a colloquio con Blinken che guida il Dipartimento di Stato.

Il pressing sul neopresidente iraniano si è fatto subito sentire. Washington ha messo in mostra i muscoli, Tel Aviv ha dimostrato di continuare a cooperare e dialogare con gli Stati Uniti anche dopo l’era di Donald Trump.


L’Iran e la guerra possibile

Come reagirà l’Iran? Porterà avanti i negoziati sul nucleare? Gli Stati Uniti potrebbero bombardare il territorio iraniano? Avremo le risposte nelle prossime settimane, forse mesi.

Intanto, si sta consolidando sullo scenario mediorientale una nuova alleanza tra Paesi sunniti e sciiti. E’ la trilaterale Egitto, Giordania e Iraq e ne ho parlato in questo post.

La vera notizia sta nel fatto che il leader iracheno, sciita, accetta di cooperare con due Stati sunniti. L’Iraq dunque sembra scaricare l’Iran, Certo è presto per dirlo perché i voltagabbana nel mondo mediorientale sono abili trasformisti capaci di passare da un campo all’altro più velocemente dell’Italia nel XX secolo.

L’iracheno Ibrhaimi ha comunque tutto da guadagnare a stare dalla parte di Amman e del Cairo. La Giordania è il Paese moderato vicino agli Stati Uniti e da anni orientato a una politica neutralista. L’Egitto svolge un ruolo di centralità tra Medio Oriente, Mediterraneo e Golfo. La sua geopolitica persegue un interesse nazionale che va dalla crisi libica a quella mediorientale fino a toccare i delicati equilibri tra le monarchie del Golfo e spingendosi anche nel sud dell’Africa. E’ la diplomazia egiziana che ha convinto Gaza e Israele al cessate il fuoco dopo la crisi militare di maggio.

In questo contesto l’Iran di Raisi avrà ben poco margine di manovra. Gli resta la Siria di Bachar al-Assad e i territori dello Yemen controllati dagli Houthi. La collaborazione con Russia e Turchia è stata solo un matrimonio di convenienza, che si è sciolto non appena le nuove condizioni internazionali hanno permesso ai due false friends di dirigersi verso altri lidi e obiettivi.

Il resto del gioco lo fanno le sanzioni imposte al regime degli Ayatollah. Teheran subisce e sente il peso dell’embargo. Ormai non lo negano più neppure gli stessi leader politici iraniani. L’unica via d’uscita è quella del negoziato e della collaborazione. Una strategia che consentirebbe all’Iran di tirarsi fuori dall’isolamento.


Stati Uniti, Iran e la guerra

Stati Uniti e Iran sono davvero destinati a una guerra? Molto dipende dai due player ma anche dagli interessi degli altri Paesi, soprattutto quelli del Golfo. Alcune monarchie non attendono altro per eliminare un potenziale concorrente economico e politico nella lotta per l’egemonia regionale. Un Iran di nuovo attivo e libero da embarghi nel commercio internazionale fa da contrappeso all’Arabia Saudita. Gli sceicchi di Riad, ma anche quelli di Emirati Arabi Uniti e Qatar, vendono petrolio senza la concorrenza del ricco vicino iraniano.

L’Arabia Saudita, così come le altre monarchie del Golfo, hanno in mano un’arma di ricatto economico e finanziario potentissima. Perché possono influenzare il prezzo del greggio aumentando o riducendo la produzione a loro piacimento. L’ex-presidente Trump aveva portato Riad su un palmo di mano senza contare che il governo saudita poteva metterci una moneta molto salata.

The Donald non aveva imparato nulla dalla lezione che la storia ci ha insegnato negli anni ’70 del XX secolo. La crisi petrolifera del 1973 aveva condotto a politiche severe di austerità. La crisi cominciò proprio con i Paesi produttori di petrolio e l’aumento dei prezzi del greggio causati dalla riduzione della produzione. L’aumento dei costi provocò quel fenomeno economico conosciuto come inflazione importata. Le conseguenze furono notevoli. E tutto cominciò da Paesi cosiddetti amici.

Il progetto di Barack Obama fu invece quello di rimettere Teheran sul palcoscenico del teatro mediorientale. Il negoziato nucleare non fu solo un accordo che blindava l’Iran sui test atomici obbligandolo a collaborare sull’energia nucleare. Fu soprattutto una grande operazione diplomatica per riportare Teheran nell’arena politica e nella lotta geopolitica per l’egemonia nella regione. In altri termini, l’America di Barack era alla ricerca di un alter ego all’Arabia Saudita, un contrappeso politico in grado di bilanciare lo strapotere che Riad e le altre capitali sunnite avevano raggiunto.

In parte ci riuscì. L’eliminazione graduale delle sanzioni aprì un poco i rubinetti del petrolio iraniano sui mercati internazionali. Il nervosismo saudita era alle stelle. Le navi cargo iraniane tornarono a essere numerose nelle acque dei golfi. Leader francesi e italiani incontrarono la leadership iraniana. Il ministro degli esteri francese andò in visita ufficiale in Iran. Le grandi aziende petrolifere europee cominciarono a guardare con interesse al mercato e alle risorse dell’ex-Persia.

Ora i nuovi governi di Israele e Stati Uniti mantengono un atteggiamento ambiguo e sospettoso. Certo l’elezione di Raisi in Iran non aiuta. Joe Biden sembra comunque orientato a proseguire la linea tracciata da Trump. Così come il governo israeliano del tandem Bennett- Lapid vuole seguire le orme di Benjamin Netanyahu.

La variante iraniana causata dall’elezione del presidente Raisi crea scompiglio allo stesso modo di quando era presidente il moderato Hassan Rohani. Quest’ultimo per storia e formazione è una figura completamente diversa da quella di Raisi. Eppure, anche in presenza di un leader moderato l’atteggiamento non era diverso. Forse é la percezione verso l’Iran a dettare le regole di comportamento degli altri Stati più che l’avvicendamento al potere di leader diversi.

L’Iran è e sarà sempre una variante pericolosa come un virus in Medio Oriente finché la diplomazia dei leader politici internazionali non si decide a cambiare passo e registro. Senza questo mutamento di rotta, sì, dobbiamo dirlo, una guerra è possibile.

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