Abbiamo chiesto all’inviato in Medio Oriente del quotidiano milanese un punto di vista sulla crisi siriana.

Lorenzo Cremonesi è l’inviato di guerra del Corriere della Sera. Specializzato sul Medio Oriente, è al Corsera dal 1989. Per il quotidiano milanese ha seguito le crisi nelle zone più “calde” dell’area mediterranea e mediorientale.
Lorenzo Cremonesi, quali sono gli effetti della crisi siriana sui rapporti tra Stati Uniti e Russia? C’è una ripresa delle relazioni dopo la crisi ucraina, o si va verso una distanza maggiore tra Washington e Mosca?
La campagna militare della Russia in Siria avviene davanti all’acquiescenza americana. Le operazioni militari di Mosca a sostegno del presidente siriano Bashar al-Assad sono in parte aiutate dalle scelte di politica estera di Barack Obama: minore presenza e meno coinvolgimento in Medio Oriente. E’ la politica Usa di questi anni del no ai “boots on the ground”, a non mettere cioè gli stivali americani sul territorio afro-asiatico.
In Siria non esistono più due potenze che si contrappongono. Ce n’è una, la Russia, che occupa lo spazio lasciato dall’altra: gli Usa. Ora, occorre attendere di vedere fin dove gli Stati Uniti sono disposti a lasciar fare. I cacciabombardieri di Mosca, ad esempio, continuano il lancio di bombe in Siria: nonostante la prospettiva di un cessate il fuoco, nonostante la ripresa del negoziato a Ginevra il 7 marzo come annunciato dall’Onu.
Secondo Lei che partita sta giocando Vladimir Putin in Siria?
E’ difficile dirlo. Il presidente Putin ha fatto sicuramente la scelta di sostenere lo sciismo. Gli sciiti rappresentano la minoranza nel mondo musulmano, dove sono prevalenti i sunniti. Paradossalmente, la Russia di Putin raccoglie i frutti degli sforzi americani di normalizzare i rapporti con l’Iran sciita. Mentre Teheran sta entrando a piccoli passi nel libero mercato internazionale (ci sono ancora restrizioni al commercio di alcuni prodotti n.d.r.), la Russia vende all’Iran armamenti senza problemi. Potenziando così nella regione gli sciiti, che considerano l’Iran come punto di riferimento.
Il Segretario di Stato Usa, John Kerry, ha detto alla Commissione Esteri del Senato americano che se fallisce la tregua siriana è plausibile ipotizzare una spartizione territoriale della Siria. La ritiene un’ipotesi realistica?
Quello che dice Kerry rispecchia un fatto epocale: siamo alla fine degli accordi Sykes-Picot del 1916, dove si tracciarono artificialmente i confini della successiva spartizione del Levante e della Mesopotamia tra Gran Bretagna e Francia. E’ in corso uno stravolgimento generale del Medio Oriente perché l’intera regione non riconosce più quegli equilibri e quei confini. Lo stesso Putin potrebbe essere d’accordo con questa ipotesi. Perché Assad può resistere solo con l’aiuto di Mosca, che non può continuare a tenere i militari in Siria all’infinito. Assad sarebbe stato spazzato via senza l’intervento militare russo. Putin è consapevole che il presidente siriano sarà in grado di governare solo su una porzione di territorio dopo questi cinque anni di conflitto civile. E anche Assad lo sa.
L’Isis ha fatto sentire il peso della sua presenza sul negoziato di Ginevra nelle scorse settimane. E ha firmato gli attentati a Damasco e Homs. Quanto è ancora forte l’Isis oggi?
Lo Stato Islamico è in difficoltà. Sia in Siria che in Iraq. Non è però sconfitto, come può sembrare dalla diffusione di notizie. Si scopre ad esempio che Ramadi non è stata ancora liberata totalmente dall’Isis. L’indebolimento del Califfato passa comunque da un’azione decisa dentro i suoi confini, che non sono territoriali ma costituiti da componenti sunnite della regione e dai foreign fighters provenienti dall’occidente. Una strategia è di avvicinare le minoranze sunnite più moderate che attualmente sostengono lo Stato islamico, strappandole dall’esercito dell’Isis. E ciò si fa ridando fiducia a queste minoranze sunnite, disposte spesso a farsi “comprare”.
Ovidio Diamanti