Nel puzzle a mille colori della regione mediorientale e nordafricana i miliziani dello Stato Islamico si muovono a loro agio. La strategia di conquista dell’auto proclamato Califfo Al-Baghdadi è sempre la stessa. I suoi militanti si infiltrano dove c’è più instabilità di governo o debolezza di controllo della sovranità territoriale. E’ successo in Siria e Iraq, nella penisola del Sinai, in Libia. Il ramo per così dire centrafricano della Jihad integralista, i gruppi di Boko Haram e Al Shabab, si sono sviluppati grazie a una dose di immobilismo dei governi, scarso controllo delle periferie (come in Nigeria) e disordini sociali. Con queste premesse tutto fa pensare che il prossimo obiettivo sia lo Yemen. Nel paese ci sono tutti gli ingredienti classici per la lievitazione dello Stato islamico: destabilizzazione, governo latitante, territorio senza controllo, scontro tra fazioni. Il presidente dello Yemen Abed Rabbou Mansour Hadi ha perso la sua legittimità ed è un latitante. I ribelli sciiti che si contrappongono ad Hadi sono riuniti nel “Comitato Supremo della Rivoluzione”. Le istituzioni internazionali, Onu inclusa, hanno assunto posizioni soft di principio. Il Consiglio di Sicurezza si è limitato a una risoluzione di condanna delle azioni dei ribelli sciiti lo scorso 16 febbraio. Gli Stati occidentali hanno chiuso le loro rappresentanze diplomatiche. Intanto, il Paese è sul baratro di una guerra civile. Che potrebbe aprire un portone alle milizie di Al Baghdadi. Certo, la presenza degli sciiti induce a pensare che la strada per i sunniti dell’Isis sarebbe in salita. Tuttavia, una ramificazione dello Stato Islamico nella penisola arabica si tradurrebbe in un nuovo successo per Al Baghdadi con il rischio di attirare nuovi seguaci.
Ovidio Diamanti