La stampa americana scrive in questi giorni come sia crollato il modello di San Francisco, la città icona dei movimenti liberal.
C’era una volta San Francisco. La città della California del nord è stata per quarant’anni il simbolo delle battaglie progressiste e dei movimenti liberal. Qui sono nate la musica di protesta e la beat generation, le manifestazioni contro la guerra in Vietnam, le battaglie per i diritti femminili e per quelli degli omosessuali. Gli studenti e i lavoratori di San Francisco hanno cominciato a fare il ’68 prima della Sorbona di Parigi, prima delle città europee.
Eppure oggi la città della Baia non è più la stessa. La guida ininterrotta di sindaci democratici, tra i quali la prima donna di colore sindaco degli Stati Uniti, sembra avere prodotto una sconfitta, una retromarcia rispetto al sogno di libertà e progresso, di diritti e fratellanza associati sempre alla città californiana.
I più importanti quotidiani americani scrivono in questi giorni che San Francisco è il cuore malato dell’America. Le analisi sociali e economiche, e i giudizi di autorevoli editorialisti, sono pesanti. Dal Washington Post al New York Times tutti concordano su una cosa. Il modello San Francisco di città liberal e progressista, di sinistra e di equità, è finito. Ed è finito perché ha fallito la sfida storica di essere e mantenersi città alternativa, con un modello di sviluppo originale e diverso.
Per decenni questa celebre città, fondata su colline lambite dall’acqua del mare su tre lati, è stata l’icona del rinnovamento, rifugio di migranti, punto di riferimento per bohemien maledetti, poeti celebri e non, attori e scrittori, artisti di ogni genere, emarginati sociali e disgraziati. E’ stata forse la più romantica e sognata, ambita e desiderata città degli Stati Uniti. Qualcuno negli anni ’90 si era spinto a definirla la “Parigi della West-Coast”.
Questa San Francisco non c’è più. E le inchieste della stampa Usa dicono tutte la stessa cosa. Le persone intervistate ripetono all’unisono che “qualcosa si è rotto in città”.
I conservatori l’hanno a lungo detestata perché città simbolo del liberalismo politico e del politically-correct. Il rimpianto maggiore oggi è per quello che la città ha perduto. La sua accoglienza verso ciascuno, uno spirito di apertura messo in crisi dall’ondata di ricchezza che l’ha sommersa in questi anni.
Il mercato immobiliare della Baia è tra i più costosi degli Stati Uniti. Un appartamento per una famiglia può costare in media 1 milione e mezzo di dollari. L’affitto mensile di un appartamento con una camera da letto costa in media 3.700 dollari. E molti si chiedono se non sia un capitalismo senza regole. E dove sia finito lo spirito libertario della città. Le sue politiche per la casa.
Chi arriva a San Francisco dunque non ci lascia più il cuore come una volta. Perché la città non ha più un cuore. Qui tutto è ricchezza, sviluppo, lavori super pagati, start-up, edilizia commerciale e residenziale.
Ma la città della Bay area, con i suoi 883.305 abitanti, è anche povertà e disperazione. I senza casa sono almeno 7500, dormono nei parchi e usano i marciapiedi come servizi igienici. Nel 2018, un rapporto delle Nazioni Unite scrive che a San Francisco sono stati violati molti diritti umani. Un paradosso per questa città storicamente all’avanguardia per i diritti umani. Basti pensare che lo scorso anno il Sindaco London Breed ha costituito delle squadre di persone per ripulire i camminamenti dalle deiezioni umane.
Eppure siamo nella città di Google e Uber, della Silicon Valley delle grandi industrie tecnologiche. Facebook e Twitter, Apple e Uber condividono l’esperienza più tech del mondo con disperati che nel loro cortile di casa dormono nei parchi, in tende stracciate e luride, espulsi dal lavoro e dalla vita.
I ricchi sempre più ricchi, gli homeless sempre più disperati, la città non è più unita ma divisa. Ed è un luogo cruento in cui non si respira pace e serenità.
Certo l’industria tech è e continua a essere il simbolo della città. Una metropoli che è passata attraverso trasformazioni epocali: l’età dell’oro, corruzione, terremoti, incendi devastanti, ricostruzioni, scioperi, ondate migratorie, battaglie per i diritti civili, l’ascesa della cultura Gay, le estati dell’amore, la bolla tecnologica degli anni ’90 e l’esplosione dell’era tech, da internet alle nuove tecnologie.
Eppure i residenti, nonostante il fiume di denaro che circola in città, denunciano l’aspetto mono-culturale che domina la città. E si chiama Silicon Valley e tutto ciò che sta attorno. Tra questi residenti c’è Julie Levak-Madding, che gestisce la pagina Facebook di VanishingSF. Critica senza mezzi termini quello che lei definisce il carattere di “iper-gentrification” della sua città. Un termine in voga, gentrification, che deriva dalla parola inglese gentry, riferita alla classe media borghese. Di fatto si usa sempre più per riferirsi a un imborghesimento delle aree popolari. O meglio indica l’insieme dei cambiamenti urbanistici e socio-culturali di un’area urbana, tradizionalmente popolare.
Per molti abitanti, insomma, San Francisco è diventata irriconoscibile nel giro di un decennio: troppo omogenea, troppo tech, troppo costosa, troppo elitaria.
Inoltre, non ha più le caratteristiche per continuare a essere una città dinamica. Ha la più bassa percentuale di bambini, il 13,4%, delle città americane. Ci sono tanti cani nelle case dei residenti quanti i ragazzi under 18. La città una volta era simbolo del movimento e della cultura nera tanto da eleggere per prima in America un sindaco donna di colore. Oggi la popolazione afro-americana si è più che dimezzata rispetto a cinquant’anni fa. I neri sono il 5,5% della popolazione residente rispetto al 13% di mezzo secolo prima. La città è meno eccentrica, meno casa di musicisti e artisti che non trovano più spazi per studi musicali o recitazione. Alcuni giornalisti americani si chiedono come potrebbero nascere in queste condizioni nuovi Grateful Dead o una generazione di scrittori come fu la beat generation?
San Francisco insomma deve capire dove sta andando e dove arriverà.