Con Vicolo Cannery John Steinbeck ci offre una rappresentazione originale di un’umanità disperata che vuole riscatto senza perdere la propria dignità.
Vicolo Cannery (Cannery Row) di John Steinbeck è soprattutto introspezione.
Il grande romanziere americano sapeva meglio di chiunque altro narrare con la sua penna passioni, pensieri, emozioni e sofferenze. Vicolo Cannery non fa eccezione. Sotto la sua lente di ingrandimento passa tutta l’umanità che convive in questa strada di Monterey, California.
Il romanzo appartiene al periodo della maturità letteraria. Pubblicato nel 1945, il Vicolo è l’ultimo in ordine di tempo di una dozzina di libri (il primo è del 1929) che lo hanno portato al successo. A mio giudizio siamo molto lontani da Furore, Uomini e Topi o Pian della Tortilla. C’è un po’ meno di quella forte denuncia sociale e attacco politico al sistema americano contenuto nei racconti precedenti.
Pur affrontando sempre, nel suo tipico stile narrativo, la disperazione della vita e la dignità umana, Steinbeck ci fa conoscere questa volta i suoi personaggi facendo uso della tecnica del linguaggio del corpo. I dialoghi sono pochi. Molto dettagliate invece le descrizioni dei comportamenti.
Ne è un esempio l’incontro tra il Dottore e Mack, due dei protagonisti. Mack ha organizzato una festa a sorpresa per il Dottore. A casa del Dottore. La festa non inizierà mai perché Mack e i suoi amici si ubriacano durante i preparativi e mettono sotto sopra l’abitazione. Ecco come Steinbeck descrive l’incontro di chiarimento tra i due: “Il Dottore aprì una bottiglia e versò adagio in un bicchiere facendo in modo che ci fosse poca schiuma. Riempì un altro gran bicchiere. Mack entrò. Il Dottore gli mostrò la birra con un cenno del capo. Mack buttò giù mezzo bicchiere d’un colpo. Sospirò forte e guardò dentro il bicchiere“. Se non ricorda la sequenza di un film di Sam Peckinpah poco ci manca.
Steinbeck inventa una sorta di fotografia letteraria scattata con la sua penna magistrale. Non a caso per il suo stile vince il premio Nobel per la letteratura nel 1962. Sembra quasi di vederli i due uomini, tra imbarazzo e sorpresa, confrontarsi sull’accaduto. Ce li immaginiamo, raccolti nel silenzio e nelle loro riflessioni. Eppure si capiscono. Con i gesti e con gli sguardi.
Facevo riferimento prima alla dignità umana. C’è tutto il mondo possibile nel vicolo Cannery. Ci sono tutti i personaggi che rappresentano un quartiere qualunque d’America o del mondo. La grandezza del romanziere sta nella semplicità della descrizione. C’è tutto nell’incipit che apre la storia. Basta solo quello a farci capire tutto. Un attacco straordinario.
Un Dottore carismatico e rispettato, quattro personaggi strampalati e nullafacenti, la Dora con le sue ragazze della casa di appuntamenti che gestisce, Lee Chong il cinese del bazar affarista e poco affabile. Sono gli abitanti del Vicolo Cannery. Ruffiani, giocatori, figli di malafemmina ma che, come spiega l’autore, visti da un altro spiraglio possono essere santi, martiri, angeli e uomini di Dio.
La figura interessante è proprio quella del Dottore, approfondita maggiormente dallo stesso Steinbeck. Uomo saggio e autorevole, il Dottore sta dalla parte dei più deboli, crede in loro e ha la loro collaborazione. Ottiene, insomma, in questo luogo dove tutto accade, la riscossa dell’uomo che riemerge con la propria dignità. Sono i più deboli, gli emarginati dalla società bacchettona e benpensante a riscattare e aiutare l’umanità nel bisogno. Significativa e suggestiva a questo proposito è l’immagine delle signore (diciamo così) della casa della Dora che sono tra le più attive a portare aiuto e soccorso durante una forte epidemia.
Il Dottore è anche un po’ burbero. Gli piace viaggiare da solo piuttosto che avere con sé loquaci compagni di viaggio. Che zittisce a malo modo.
Quando Steinbeck scrive il romanzo, ha superato la grave crisi depressiva in cui è caduto nella seconda metà degli anni’30 a seguito della perdita del padre e poi della madre. A ispirarlo nella stesura fu la conoscenza con Edward Ricketts, l’amico di sempre. Probabilmente si ispirò a lui per il personaggio del Dottore.
Risalta in Vicolo Cannery tutta l’ironia ma anche l’umorismo della vita umana. La descrizione di Henri indica un mondo di affabulatori e sognatori: “Henri il pittore non era francese e non si chiamava Henri. E in realtà non era nemmeno un pittore. A forza di interessarsi delle storielle della Rive Gauche di Parigi, ci viveva, benché non ci fosse mai stato”.
Ma il passaggio più interessante che mette in risalto ancor più l’ironia e il realismo sociale di Steinbeck è questo: “..le cose che ammiriamo negli uomini, la bontà, la generosità, la franchezza, l’onestà, la saggezza e la sensibilità, sono in noi elementi che portano alla rovina. E le caratteristiche che detestiamo, la furberia, la cupidigia, l’avarizia, la meschinità, l’egoismo, portano al successo. E mentre gli uomini ammirano le prime di queste qualità, amano il risultato delle seconde”.
La capacità di Steinbeck è poi quella di rendere familiare il paesaggio. Pur non essendoci mai stati, la potenza narrativa ci fa sentire a casa nostra, vedere con gli occhi il vicolo, rendercelo familiare come se vivessimo lì da sempre. Da leggere o rileggere assolutamente.