Il governo di Netanyahu continua la guerra e allarga il conflitto. Dopo la tragedia del 7 ottobre, Israele ha rovesciato lo status quo mediorientale e distrutto ogni speranza di rilanciare il processo di pace.
Benjamin Netanyahu non si ferma. L’esercito israeliano prosegue la campagna militare a Gaza, lancia raid periodici in Cisgiordania, attacca in Libano e decapita la classe dirigente di Hezbollah, colpisce le basi degli Houthi in Yemen. Israele, dunque, mette in campo un’offensiva a tutto campo nella regione mediorientale.
Un anno dopo l’aggressione di Hamas del 7 ottobre 2023, il contesto geopolitico mediorientale è stato rovesciato come un calzino. Hamas di fatto è stata annientata. Hezbollah ha perso la sua classe dirigente. I ribelli sciiti filo-iraniani, gli Houthi, sono il nuovo bersaglio mobile delle forze di difesa israeliane (Idf).
Tutta la strategia di Israele ruota dunque attorno all’Iran. Gli attacchi dell’esercito israeliano hanno colpito il mondo del fondamentalismo sciita e loro alleati. I prossimi obiettivi potrebbero essere la Siria e l’Iraq. E isolare il regime degli Ayatollah, che resterebbe accerchiato.
Chi ha parlato in questi mesi di rischi di escalation avrà colto che l’allargamento del conflitto mediorientale avviene da tempo. Israele ha tutto il diritto alla difesa e alla rappresaglia per il 7 ottobre, ma non deve avere un assegno in bianco per allargare il conflitto nel nome della propria sicurezza.
E neppure gli va permesso di nascondere dietro la rappresaglia il tentativo di “bruciare” la formazione di uno Stato palestinese. Netanyahu, insomma, vorrebbe danzare sulle macerie degli accordi di Oslo del 1993 e quelli successivi di Washington.
Bibi e il suo governo vogliono, e senza tanti misteri, mettere la pietra tombale sul processo di pace (del quale rimane ben poco). Non si sono limitati, infatti, alla sola incursione a Gaza ma hanno lanciato operazioni militari anche in Cisgiordania e nei territori occupati con l’obiettivo di “spingere più in là” i palestinesi e aprire la strada agli insediamenti dei coloni ebrei.
La destra israeliana, quindi, vuole stravolgere lo status quo e chiudere una volta per tutte la prospettiva politica della nascita di uno Stato palestinese. Netanyahu e il suo governo respingono l’opzione “pace in cambio di terra”, che è alla base degli accordi di Oslo del 1993 sottoscritti da Rabin, Arafat e Bill Clinton.
Lo scenario del governo israeliano è quello di estendere lo Stato ebraico fino al fiume Giordano sui territori che l’esercito di Israele ha occupato nella guerra del 1967. Unica lacuna di questo disegno geopolitico è che la condizione dei palestinesi nel nuovo Stato allargato è ancora indefinita.
Rimane indefinita anche la posizione verso Teheran. Israele ha colpito e ucciso Mohammad Reza Zahedi, esponente dei Guardiani della Rivoluzione iraniani, in un palazzo dell’Iran a Damasco, Siria. Ha anche ucciso in un raid a Teheran un leader di Hamas, Ismail Haniyeh, che si trovava nella propria abitazione. L’Iran ha promesso ritorsioni, che però non ci sono ancora state.
Adesso più che mai tocca alla diplomazia internazionale intervenire per trovare una soluzione. L’Onu, le grandi potenze e le agenzie governative appaiono assenti e impotenti nell’attuale conflitto mediorientale. Occorre un intervento politico e decisionale e più presenza sul campo nella definizione di certe scelte (come quelle dei colloqui di Doha e Il Cairo). Altrimenti gli altri, e in questo caso gli israeliani, decidono da soli.