Cosa è stata la politica estera degli Stati Uniti negli anni di Obama? Lo abbiamo chiesto al professore Ennio Di Nolfo, tra i massimi esperti di storia delle relazioni internazionali, del quale è uscito di recente l’ultimo libro per Laterza.

La politica estera degli Stati Uniti negli otto anni del presidente Barack Obama. Come ha agito la Casa Bianca nel teatro internazionale e nei diversi ambiti regionali. E soprattutto quale eredità lascia il primo presidente nero della storia americana.
Ne abbiamo abbiamo parlato con Ennio Di Nolfo, già professore emerito di storia delle relazioni internazionali in prestigiose Università italiane e straniere, saggista, commentatore di esteri e pubblicista. Il professor Di Nolfo ci racconta il suo punto di vista sulla politica estera della Casa Bianca.
L’intervista a Di Nolfo avviene mentre è uscito nelle librerie il suo ultimo libro: “Storia delle relazioni internazionali. Dalla fine della guerra fredda ad oggi”, edito da Laterza. Il volume lo abbiamo letto ed è uno strumento essenziale per comprendere le tappe fondamentali di una fase di transizione, iniziata con il 1989 e non ancora conclusa.
1) Professor Di Nolfo, alcuni osservatori sostengono che negli anni del presidente Obama sia mancato proprio il regista della geopolitica americana. E’ stata una politica estera improvvisata o in realtà c’è stato un disegno strategico?
A mio modo di vedere la politica estera di Obama, sebbene contenga in sé alcuni elementi contraddittori, è stata il frutto di una accurata riflessione strategica.
Questa non ha origini recenti ma è costruita su una serie di esempi che, per limitarmi nel tempo, direi risalgano all’immediato secondo dopoguerra.
Il dilemma rispetto al quale gli Stati Uniti dovevano dare una risposta è analogo a quello che caratterizzò la discussione della Risoluzione Vandenberg, che avrebbe poi aperto la via al Patto atlantico. Gli USA dovevano decidere circa la portata degli impegni che essi intendevano prendere (allora) verso il “mondo libero”; con il tempo, e più in generale, rispetto a tutti i problemi della politica mondiale.
Era compito degli Stati Uniti intervenire anche militarmente in tutti i casi in cui si delineasse una crisi potenzialmente minacciosa per i loro interesse, oppure, più estesamente, era compito degli Stati Uniti farsi garanti della pace nel mondo, dove il concetto pace aveva una declinazione americana?
Nel tempo le varie amministrazioni hanno dato risposte ambivalenti. Ma basta riflettere sul fatto che persino la garanzia atlantica (art. 5 del trattato) era subordinata al consenso del Senato, per vedere che la propensione a guardare le situazioni “from behind” (come fa Obama) è una delle caratteristiche permanenti della politica estera americana.
Tuttavia la definizione più netta della volontà americana di non essere i “poliziotti del mondo” venne con Nixon e con le sue decisioni assunte unilateralmente, cioè senza consultare gli alleati (apertura alla Cina; accordi con l’Unione Sovietica, sganciamento del dollaro da Bretton Woods).
Obama non ha seguito la stessa linea di disinteresse. Tra le varie opzioni ha però scelto una via intermedia, più volte ribadita: grande attenzione a ciò che accade ovunque e netta percezione del fatto che gli USA non agiscono più in un sistema bilaterale ma in un sistema policentrico.
Una visione a 360 gradi impone senso della misura e circoscrive le reazioni americane alle crisi dove essi vedono colpiti loro interessi diretti. Negli altri casi sono sufficienti aiuti meditati o influenza sul terreno politico. Obama non intende ripetere esempi come quelli del Libano, della Somalia, dell’Iraq o dell’Afghanistan, i primi conclusi in un fallimento; e i secondi chiusi da un imbarazzata ritirata che tiene conto del rapporto tra i costi di un’azione militare, le possibili vittime di militari americani e le conseguenze che ciò avrebbe nella vita interna.
Queste considerazioni diventato tanto più necessarie dopo che gli USA hanno acquistato l’indipendenza energetica. Non vi è stata improvvisazione ma accurata riflessione strategica sui limiti entro i quali far valere in termini politici l’influenza americana.
I risultati diplomatici ottenuti confermano la fondatezza di questa strategia. Essa riguarda la crisi siriana e il tema Isis solo nei limiti in cui queste possono portare a conflitti più estesi. Ma Obama sa benissimo che un successo dei fondamentalisti islamici avrebbe conseguenze in primo luogo nel Daghestan o nella Cecenia, cioè nella repubblica russa.
2) C’è stato un salto di qualità tra il primo e il secondo mandato Obama?
I due mandati sono stati condizionati anzitutto dalla volontà di Obama di ritirare le truppe dall’Iraq e dall’Afghanistan, ma soprattutto dal fatto che egli assumeva la presidenza nel momento iniziale della crisi economica che avrebbe caratterizzato il suo mandato.
3) Qual è stato, professor Di Nolfo, il valore aggiunto nella politica estera di questi anni?
Il valore aggiunto della presidenza Obama consiste principalmente nel fatto che dal 2008 al 2016 gli Stati Uniti non sono stati impegnati in un conflitto bellico.
4) L’impressione è che Obama abbia agito a 360 gradi: ritiro dall’Iraq, normalizzazione dei rapporti con Iran e Cuba, la grande recessione del 2008, primavera araba. Ma è arrivato anche l’Isis e il terrorismo jihadista, la crisi Ucraina e la tensione con la Russia: cosa non ha funzionato?
Ciascuna delle nuove sfide recenti ha posto il problema dei limiti della risposta americana.
Penso che la questione dell’Ucraina sia stata considerata un problema prima europeo che americano; di conseguenza mi pare che l’occupazione della Crimea sia stata data come inevitabile. La guerriglia nelle province orientali viceversa rappresenta un tema di profondo dissenso ma non spinto oltre il limite delle sanzioni economiche.
Viceversa la crisi mediorientale impegna maggiormente la diplomazia americana e, in una certa misura, le sue forze armate. Sul piano diplomatico, l’opposizione ad Assad è stata una sfida in termini di principi politici e di influenza marittima. Credo che se Assad avesse accettato l’ipotesi di elezioni dilazionate, dopo le quali si sarebbe ritirato ma delle quali avrebbe potuto manipolare l’esito, la reazione di Obama sarebbe stata quella di accettare a malincuore un compromesso, in sostanza non dissimile rispetto a quello che ha caratterizzato il modo in cui è stata subita la controrivoluzione egiziana.
L’intervento russo, provocato da quello francese, ha complicato la situazione poiché esso mette la Turchia, cioè un paese NATO, in una posizione ambigua e la costringe a scelte che, dal punto di vista interno, sono laceranti. Mentre diviene marginale la presenza di foreign fighters anti-Assad, la crescita dell’Isis e la normalizzazione delle relazioni con l’Iran provocano l’intervento di due progetti divergenti: sciita quello iraniano e sunnita quello turco e dei paesi arabi.
Si profila un accordo militare fra la Turchia e l’Arabia saudita. Inoltre rimane ambiguo il comportamento degli emirati. La questione dei rifugiati provoca reazioni in linea di principio negli Usa ma non li smuove dall’ovvia considerazione che essa riguarda in prevalenza l’Unione europea. In tutto questo intreccio, un intervento degli Stati Uniti, spinto oltre l’invio di armamenti e aiuti umanitari non potrebbe che complicare la situazione. Guardare di lontano per circoscrivere la crisi è la linea più corretta per gli Stati Uniti. Nessuno approverebbe l’invio massiccio di forze americane in un’area dove gli interessi sono indiretti e affidati agli alleati della Nato, più l’ Egitto e l’ Arabia.
5) In questi anni “obamiani” mi sembra che si è parlato meno di Israele e Palestina. La Casa Bianca è meno interessata?
La questione palestinese e i rapporti con Israele sono evidentemente diventati un aspetto minore della crisi. Finché i combattimenti hanno luogo all’esterno della Palestina, Israele gode di un periodo di pace piuttosto evidente.
L’accordo tra Israele-Cipro e la Turchia lega indirettamente Israele alla Nato. In altri termini, credo che gli Israeliani, al di là dei sospetti con i quali guardano all’Iran (del quale furono alleati fra il 1980 e il 1988) non debbano avere particolari motivi d’allarme. Del resto, la forza del loro esercito e del loro apparato nucleare facilita un atteggiamento di attesa.
Rispetto a tutto questo, diviene evidente che per un presidente come Obama il tema dell’assetto interno della Palestina diventa una questione di in secondo piano. I cattivi rapporti con Netanyhau facilitano un distacco che ha natura tattica: nessuno dubita del fatto che Israele sia un solido alleato degli Usa nel Mediterraneo orientale. Forse ancora il più solido, nonostante la sempre più diffusa persuasione del fatto che Israele chieda di essere sin troppo garantita da un pericolo che per ora non è imminente.
6) Cosa farà Obama in Libia? Aspetta la fine del mandato senza azione, o interverrà?
Circa la Libia è ora evidente che tutti aspettano che la soluzione diplomatica, includendo le pretese del generale Haftar, possa anticipare la conquista della Libia da parte dell’Isis, le cui forze potrebbero spingersi verso l’Africa settentrionale qualora dovessero subire una sconfitta in Siria-Iraq. Non esistono, al momento motivi particolari che possano indurre Obama a prendere decisioni precipitose. Naturalmente questo è un parere che vale solo per un periodo di tempo circoscritto.
7) La grande incognita cinese e i rapporti con l’Asia. Come ha agito sul fronte asiatico Barack Obama?
Il grande gioco con la Cina è condizionato da due elementi: il successo delle riforme di Xi Jinping e la volontà degli Stati Uniti di tenere a distanza ragionevole i motivi di conflitto, anche economico. Obama segue sia la strada delle buone relazioni diplomatiche con Pechino sia quella che lo induce a circondare la Cina con una catena di soggetti legati soprattutto, o prima di tutto, agli Usa, come dimostrano i rapporti USA-Asean ma, più ancora il trattato commerciale per il Pacifico. L’ipotesi di un conflitto finanziario è resa remota dai problemi economici interni alla Cina e dalla svalutazione dello yuan. Del resto, le riserve cinesi in dollari sono in questo momento un bene prezioso da non sperperare.
8) Professor Di Nolfo, quale eredità di politica estera lascia Obama al suo successore?
Obama lascia al suo successore la pace e una rete di buone relazioni diplomatiche di qualità diversa ma tutte migliori di quelle esistenti nel 2008. Se il principio guida è quello di guidare from behind non credo che in passato gli Usa abbiano goduto di una rete altrettanto vasta di buon relazioni con gran parte dei paesi di tutto il mondo.
Ovidio Diamanti