Il rischio di carta straccia della dichiarazione finale del G20

Al di là delle dichiarazioni finali, che di solito vengono dimenticate il giorno successivo, il G20 di Brisbane ha fatto emergere per la prima volta dall’esplosione della crisi una diversità di punti di vista per uscire dalla stagnazione mondiale e promuovere la crescita. L’obiettivo del 2,1% del Pil mondiale – circa duemila miliardi di dollari e milioni di posti di lavoro- entro il 2018 è un punto a favore di chi sostiene l’inutilità dell’austerity. La posizione è stata sostenuta da Barack Obama e appoggiata dall’inglese Cameron, dall’australiano Tony Abbot e da Matteo Renzi. Tutti hanno evidenziato nei loro interventi che l’austerità non è la risposta ma occorre fare investimenti sulla crescita. Proprio il presidente degli Stati Uniti aveva dichiarato davanti agli studenti di un’università australiana che gli Usa non possono portare il peso di tutta l’economia mondiale sebbene siano l’unico Paese con un aumento continuo dell’occupazione. Sono sembrati in difficoltà i rigoristi, come Angela Merkel, che non vogliono sentire parlare di abbandonare le rigidità. Insomma, la partita sullo scacchiere mondiale si gioca con due modelli economici in testa, diversi nelle strategie e negli obiettivi: quello che affonda le sue radici nella cultura keynesiana e punta a stimolare la domanda degli investimenti e consumi per la crescita; il modello neoliberista che punta a sostenere l’offerta con tagli a spesa pubblica e servizi e riduzioni di tasse per rilanciare l’economia. Il secondo modello lo abbiamo visto in questi anni all’opera, e i risultati sono davanti agli occhi di tutti. Il primo è quello che ha permesso agli Stati Uniti e Giappone di uscire dalla crisi velocemente. Sviluppisti e rigoristi non se le sono mandate a dire durante il vertice. Le diverse opinioni sono state smorzate dalle cortesie imposte dai protocolli diplomatici e dai rapporti interpersonali che i leader sono obbligati a tenere nei molti appuntamenti pubblici. Per gettare acqua sul fuoco il presidente della Commissione Europea ha proposto al vertice un piano di investimenti da 300 miliardi di euro da attuare entro la fine dell’anno. Ad accomunare tutti i Paesi è stata la questione climatica e l’impegno, inserito nella dichiarazione finale, a ridurre le emissioni di gas serra entro il 2030. Sulla cura del pianeta malato sono tutti d’accordo, anche la Cina che ha sempre contestato ai Paesi occidentali le restrizioni per la tutela del clima. Ora, si dovrà attendere per vedere la volontà reale delle 20 economie più forti ad investire in crescita e lavoro. O se rimane una dichiarazione su carta di cui tutti si dimenticano.

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