I retroscena diplomatici della crisi tra Israele e Gaza

Cosa faranno i Paesi arabi che hanno normalizzato le relazioni con Israele? E l’Arabia Saudita? La diplomazia Usa e la critica della Cina.

Il conflitto tra Israele e palestinesi nella striscia di Gaza continua. La diplomazia è al lavoro. Gli accordi di Abramo, parte del piano del secolo promosso dall’ex presidente Donald Trump, sono messi a dura prova.

La pioggia di razzi che Hamas lancia su Israele e i raid dei bombardieri con la stella di David su Gaza aprono una questione importante: sopravvivranno a questa crisi militare i trattati che hanno normalizzato le relazioni diplomatiche tra il governo israeliano e quelli di Emirati Arabi Uniti, Barhein, Sudan e Marocco? E saranno ancora interessati altri Paesi – come l’Arabia Saudita per esempio- che guardavano con attenzione al new deal mediorientale, a intraprendere la strada della collaborazione politico-economica con Tel Aviv?

La domanda non è da poco perché in base alle scelte che faranno i governi possono cambiare di nuovo gli equilibri mediorientali.

Finora dagli Stati “amici” che hanno riconosciuto Israele (Emirati e Barhein) tutto tace e non ci sono ancora espressioni di forte condanna per i bombardamenti se non formule diplomatiche di circostanza.

Anche l’Arabia Saudita, che sarebbe il più importante risultato diplomatico se accettasse la normalizzazione delle relazioni con Israele, ha contatti stretti con il segretario di Stato Usa Anthony Blinken. Il Dipartimento di Stato ha comunicato che il capo della diplomazia statunitense ha avuto colloqui con i ministri degli esteri di Arabia Saudita, Qatar e Egitto sulla crisi a Gaza. In tutti i casi hanno discusso della situazione e di come mettere fine all’escalation di violenza.

Gli Stati Uniti fanno sapere attraverso lo stesso Blinken che stanno lavorando intensamente per raggiungere il cessate il fuoco. Il presidente degli Stati Uniti Joe Biden ha parlato per telefono nei giorni scorsi con Benjamin Netahyau e Abu Mazen. In entrambi i casi ha rassicurato sul supporto e impegno americano a risolvere la crisi.

Al premier israeliano, Biden ha riconosciuto il diritto a difendersi. Così come ha fatto anche Angela Merkel che ha incontrato Benjamin Netanyahu. Una posizione che ha fatto arrabbiare la Cina, che è da qualche giorno presidente di turno del Consiglio di Sicurezza dell’Onu. Il ministro degli esteri cinese ha criticato pesantemente gli Stati Uniti, accusandoli di avallare la violazione del diritto internazionale. La crisi mediorientale divide ancora di più Washington e Pechino.

I grattacapi arrivano anche dalla Turchia. Il presidente Recep Tayyp Erdogan ha accusato l’occidente di non fare nulla per fermare Israele. Il leader turco ha criticato la scelta recente di Washington di approvare l’ulteriore vendita di armi agli israeliani, dicendo a Biden di avere le mani sporche del sangue dei palestinesi.

Erdogan è rimasto uno dei pochi leader musulmani a difendere la causa palestinese. Il presidente è in cerca di leadership nel mondo mediorientale. Fa però fatica a trovare consenso.

C’è inoltre la grande questione iraniana. Qual è il ruolo di Teheran in questo conflitto? Gli ayatollah hanno sempre detto di volere la distruzione di Israele. La pioggia di razzi dal Libano meridionale verso Israele fa pensare subito a Hezbollah e Hezbollah rimanda subito all’Iran.

Israele rischia dunque di essere accerchiata: Hamas che attacca da ovest, Hezbollah appoggiato da Teheran che attacca da nord, e la minaccia turca più in alto.

Hamas, che ha lanciato le provocazioni anti-israeliane e poi i razzi, ha testato sul campo l’esistenza o meno della solidarietà araba. L’unico appoggio è arrivato da un Paese non arabo come la Turchia. La stessa Lega Araba non si è ancora pronunciata.

In mezzo a tutto questo l’Onu ha fatto appello alle parti per un cessate il fuoco. Il segretario generale Antonio Guterres ha definito spaventoso il livello di violenza. Ha però in mano lui la regia più importante della crisi. L’abilità diplomatica richiesta è quella di far convergere la posizione Usa con quella cinese sui tavoli di New York. Un’impresa non facile. Se si considera il rischio di un mutamento degli equilibri e assetti mediorientali.

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